La flessibilità mentale e un punto d’arrivo, non di partenza. Ma, l’intelligenza si può allenare?

Non esiste una definizione standard. Da una visione eminentemente quantitativa, basata sulla misurazione del Q.I., oggi si è passati a una lettura più inclusiva e sinergica delle facoltà mentali, che tiene conto anche della creatività e dell’attitudine a relazionarsi con gli altri: tutte capacità che si possono affinare in ogni stagione della vita

Una buona notizia, finalmente. Anzi, due. Non esiste un solo tipo di intelligenza (ce ne sono almeno nove), e intelligenti si diventa. L’ereditarietà conta fino a un certo punto perché – e questa è la terza, grande scoperta – le performance mentali possono essere allenate, migliorate e potenziate per tutta la vita. Anche in età matura. È un bel cambio d’orizzonte rispetto alla visione dell’intelligenza intesa come una dotazione tendenzialmente fissa e misurabile sulla scorta di un test. Il primo, destinato ai bambini in età scolare, fu messo a punto nel lontano 1905 dallo psicologo francese Alfred Binet, e la sua scala (la Binet-Simon, dal cognome dello psichiatra, Théodore Simon, che lo supportò nelle ricerche) venne da lui stesso più volte revisionata, perché non teneva conto delle capacità creativo-relazionali e di quella che oggi verrebbe qualificata – per dirla con le parole dello psicologo statunitense Daniel Goleman – come intelligenza emotiva.

Le origini del Q.I.

Il Q.I. (quoziente intellettivo) così come lo conosciamo oggi corrisponde invece alla formula definita nel 1912 dallo psicologo tedesco William Louis Stern dell’Università di Breslavia, sempre allo scopo di individuare il livello d’intelligenza dei giovanissimi e capire quali fra loro avessero necessità di un aiuto specifico nello studio. Fermo restando che per decenni il Q.I. è stato considerato come un quantum presente in ciascuno alla nascita e che poteva variare solo di poco nell’arco della vita, anche il tipo d’intelligenza cui faceva riferimento era molto ben circostanziato: in effetti, la maggior parte delle prove che vanno svolte a tempo e sotto supervisione hanno una base logico-matematica e linguistica, oltre a verificare la memoria a breve termine, la capacità di visualizzazione nello spazio e la rapidità di percezione.

Sempre per restare nel metodo psicometrico, nel 1938 lo psicologo John Carlyle Raven pubblica in Gran Bretagna le Matrici di Raven (o matrici progressive), che si usano per misurare l’intelligenza non verbale e si basano su schede, con tre livelli di difficoltà crescente, in cui viene richiesto di inserire in una serie di figure quella mancante. I test di Raven sono somministrati per misurare il cosiddetto fattore Gf – o intelligenza fluida – inteso come l’attitudine ad analizzare e risolvere i problemi in situazioni nuove, usando la logica, esplorando differenti abilità e senza per forza tenere conto delle conoscenze acquisite.

Evidentemente, però, quando si parla di intelligenza c’è molto altro da indagare e da scoprire. Anche e soprattutto sul versante dei fattori ambientali ed educativi che possono determinare uno sviluppo di facoltà che risultano prevalenti rispetto ad altre e far sì che si combinino in una singolare amalgama di competenze, che varia da persona a persona.

La flessibilità mentale

Risale agli anni Ottanta l’individuazione del concetto di intelligenze multiple da parte di Howard Gardner, docente di cognitivismo e pedagogia alla facoltà di scienze dell’educazione alla Harvard University, autore del bestseller Frames of mind (Formae mentis), ma anche del recente Una mente sintetica. Indagine sulle mie intelligenze. Secondo la visione inclusiva di Gardner, tutti saremmo dotati fin dalla nascita di sette tipi d’intelligenza (verbale-linguistica, logico-matematica, visiva-spaziale, musicale-ritmica, corporea-cinestetica, sociale-interpersonale ed emotivo-intrapersonale) più altre due, l’intelligenza naturalistica e quella esistenziale.

Ricerche successive, condotte nel solco delle scoperte gardneriane, hanno permesso di definire anche l’intelligenza spirituale e quella morale, ma sebbene ciascuno sappia in cuor suo di avere delle propensioni più spiccate, è soprattutto l’utilizzo sinergico delle varie intelligenze che permetterebbe di escogitare risposte più efficaci quando si devono assumere decisioni e risolvere problemi. Intelligente è quindi, avverte Gardner, chi è in grado di «uscire dalla cornice» degli automatismi mentali che creano rigidità e incapacità di cambiare rotta, abbracciando quella flessibilità mentale peraltro ampiamente richiesta dallo stile di vita contemporaneo.

Un punto d’arrivo, non di partenza

L’intelligenza dev’essere considerata come un punto d’arrivo e non di partenza, e per fortuna va ben oltre il concetto di Q.I. Oggi si vive in un contesto estremamente complesso, sfaccettato, spesso caotico, che richiede di essere affrontato con agilità e spirito di adattamento a differenti livelli. Non a caso anche la recente riforma universitaria, che permette di iscriversi contemporaneamente a più facoltà anche molto diverse fra di loro, si ispira proprio alle esigenze imposte dalla complessità. In una realtà di questo tipo, l’intelligenza funziona come un tool, una sorta di grimaldello da utilizzare per dare un senso alla nostra quotidianità. Sono intelligente se trovo una coerenza fra ciò che faccio e ciò in cui credo: ogni volta in cui metto in gioco i miei talenti più autentici mi diventa più facile studiare e apprendere, miglioro anche le mie relazioni, divento più disponibile ad ascoltare gli altri e a essere ascoltato, sviluppo empatia e gentilezza. In fondo, sono anche più felice.

L’attitudine ai cambiamenti

Percepire in modo chiaro il proprio valore, anche con l’aiuto di chi ci circonda, è una forma di intelligenza, perché ora più che mai non si può essere intelligenti da soli, ma solo in un’ottica allargata di rete. E nemmeno è intelligente chi si sforza di ricalcare modelli estranei alla propria identità profonda o, peggio, pensa, agisce e orienta la sua vita solo in base a un’ottica di performance. Le domande giuste da farsi sono: “Nella mia economia personale di sistema, che cosa mi gratifica sul serio? Chi e che cosa mi fa stare bene? Di quali strumenti dispongo per raggiungere i miei obiettivi?”. Sono questi interrogativi che nell’ultimo biennio segnato dalla pandemia hanno innescato in tutto il mondo il fenomeno delle “grandi dimissioni”, che sono il segno tangibile della diffusione a livello globale di una nuova forma di intelligenza che spinge le persone a ridisegnare la propria scala di priorità: anche chi guadagna molto ma non crede più nel suo lavoro o in un certo stile di vita, sotto la spinta di un evento epocale come la diffusione del Covid-19 ha trovato il coraggio di cambiare, certo di riuscire a mettere in campo nuove risorse e di potersi reinventare in qualcosa di più consono rispetto alle proprie attitudini.

Il cervello può migliorare anche nell’età dek declino

Talvolta molte soluzioni nascono quando si fa leva sull’intelligenza maturata sulla scorta delle esperienze pregresse, la saggezza tipica di chi ha già affrontato certe situazioni: un serbatoio cui attingere sempre, in ogni momento della vita. Ma quando gli anni passano, quel patrimonio di know-how che fine fa? Potrà essere ancora arricchito, raffinato e rimesso in gioco o è destinato a congelarsi o addirittura a sparire? Perché se è vero che il «picco» cognitivo si raggiunge intorno ai 35 anni e già dopo i 45 diminuiscono velocità di pensiero e prontezza nel problem solving, oggi sappiamo che, come conferma una ricerca del Georgetown University Medical Center pubblicata sulla rivista scientifica Nature Human Behaviour, nel tempo il cervello continua a modificarsi migliorando – per esempio – la ricchezza del vocabolario, il senso d’orientamento e la rapidità nel calcolo e nella lettura.

Musica e port potenziano i neutroni

Norman Doidge, ricercatore per il Columbia University Psychoanalytic Center di New York e la University of Toronto, e autore del saggio Il cervello infinito (Ponte alle Grazie) è lo psichiatra che ha approfondito la teoria della neuroplasticità, intesa come la capacità del cervello di modificare la propria struttura e il proprio funzionamento in risposta all’attività – anche quella fisica – e alle sollecitazioni mentali. Già nel 2000 il premio Nobel per la medicina Eric Kandel aveva dimostrato che i processi di apprendimento aumentano le connessioni fra i neuroni, attivando dei geni particolari che modificano la struttura dei tessuti cerebrali. E questo non accade solo nella prima infanzia: può succedere a tutte le età. Studi successivi (incluse nuove ricerche di Doidge) hanno inoltre confermato che l’attività mentale non è solo il prodotto del cervello, ma è a sua volta un’energia che lo plasma e lo modifica. Da qui discende un corollario importante: il cervello è un organo plastico ed è influenzato dalle nostre abitudini, dal modo di rapportarci con il mondo esterno, ma anche dagli ambienti che frequentiamo, dalla cura che riserviamo alla nostra immagine oltre che dagli alimenti presenti nella nostra dieta. Doidge sottolinea anche l’importanza della musica, della meditazione, dell’esercizio fisico che fa produrre al corpo le endorfine, gli ormoni del benessere: tutte queste sollecitazioni si traducono in altrettanti messaggi elettrici che agiscono sulla chimica e sulla struttura dei neuroni, rendendoli più attivi oppure spegnendoli.

La riserva cognitiva protegge dal declino

Nei processi di mantenimento (o di decadimento) delle prestazioni intellettuali, la componente dell’età pesa quindi fino a un certo punto, e un ruolo di primo piano è rappresentato dalla cosiddetta riserva cognitiva, un concetto che nasce da osservazioni legate alla patologia clinica e dallo studio del cervello di anziani deceduti che in vita erano stati colpiti da patologie neurologiche. Si è infatti verificato che un danno cerebrale, dovuto per esempio a ictus o Alzheimer, può avere effetti diversi nei singoli pazienti. Se a parità di lesione si nota una minore disfunzione, allora significa che alcune persone dispongono di una maggiore “riserva cognitiva”, intesa come la capacità del cervello di far fronte alla patologia e di ridurne le ricadute negative. Chi ha più riserva cognitiva non dispone di un cervello quantitativamente “più grande”: spesso però si è visto che ha un livello di scolarità più elevato, è una persona mentalmente attiva, che non ha mai smesso di studiare, di leggere, di coltivare le amicizie, di impegnarsi in nuovi progetti, perché anche a 80 anni e oltre i cambiamenti associati al processo di apprendimento favoriscono la formazione di nuove sinapsi e l’attivazione di meccanismi di compensazione in presenza di patologie.

Questo spiegherebbe anche come mai il declino cognitivo non è un destino uguale per tutti ma rivela un’enorme variabilità individuale, che a sua volta dipende da una molteplicità di fattori. Il cervello è un organo dinamico, adattabile e avido di informazioni. Ecco perché un approccio curioso alla vita può migliorare la neuroplasticità anche in età matura, sempre a patto di conservare in salute i tessuti cerebrali grazie un’adeguata e regolare attività fisica, che garantisce ossigenazione e irrorazione vascolare, e con una dieta che protegga le cellule nervose dagli effetti dei radicali liberi, e che dunque sia ricca di antiossidanti e di acidi grassi polinsaturi, ricavabili a tavola dal consumo di semi oleosi, frutta e verdura di stagione, olio extravergine d’oliva e pesce.

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